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Corriere dello Sport

(29/05/2017)

Il Re Totti si inchina e piange

Totti Day. Totti, dai. L’ovvio, l’inevitabile che lui non avrebbe voluto, il suo momento del destino che diventa giornata di pacche sulle spalle, il conto dei momenti che mancano al commiato, i passi da misurare, gli sguardi da accumulare. Venticinque anni su quaranta a essere il fulcro di una giostra che fa impazzire gli adulti e i bambini e poi d’improvviso la corrente che manca, gli ingranaggi che scricchiolano, il freno che ansima e fa presa. Ovvio si inciampi sui sentimenti. I sentimenti, suggerisce Woody Allen, sono come le uova, piacciono a tutti e a tutti fanno bene.
 
IL NUMERO – Quando vai a vedere una cosa così, l’ultima partita di Totti, il saluto del cowboy contro il sole gigante del tramonto, non sei mai sicuro dell’ora giusta. E ogni volta capisci che invece hai fiutato il momento migliore. Ti trovi sulla strada circondato da uno sciame di motorini, tutti con due persone a bordo, con una o anche due maglie di Totti a bordo – toh, c’è uno con l’8 di Nakata – e qualcuno con bandiera al seguito. Segui la corrente. Arriva sotto lo stadio e poi si allarga come alla foce del fiume, un delta che svicola intorno alle statue del capitano e lì si spegne tra i lampi dei flash. Il dieci è il numero del calcio e lo sappiamo. Addosso a Totti vale di più, è 1 e 0, una sola squadra, nient’altro dopo. Lo stadio è romano dentro e fuori, sembra inglese per quanto è pieno, è di dovunque. Dalla Germania onore per Totti, dall’Indonesia amore per Totti, dalla Francia rispetto per Totti. Le scritte sono patrimonio comune, le lacrime idem e infatti nessuno se le tiene dentro. Tanto meno Totti e la famiglia. Ma questo succede dopo. Prima bisogna giocare la maledetta partita che sembra finta e diventa vera. Nessuno ti regalerà mai nulla, per venirne a capo devi essere Totti. O qualcosa di simile, o avere Totti accanto. Tra un po’ Totti non ci sarà più, è questo il pensiero sbagliatissimo che afferra, stringe e logora. Il silenzio che invita le squadre a giocare è implacabile. Le grida sono conservate per il nome di Totti, per il riscaldamento con il braccio levato a ringraziare, per ogni piccolo movimento. Lì bisogna sparare con la voce. Per sopravvivere all’ansia dell’addio. A Totti, a un’epoca, alla giovinezza, alla gioia pura del pallone suonato come un’arpa. Quando Francesco entra, perché deve entrare, la sordina cade. Adesso è una partita. Adesso in campo c’è tutto quello che deve esserci, la tensione, il cuore che traballa, l’altro capitano che segna e toglie la palla al Capitano unico e maiuscolo. E un ragazzo di nome Diego che scopre la soluzione al novantesimo, e Totti che torna indietro di dieci anni, o cinque, o due, chi se ne ricorda, e passa due minuti a tenere il pallone in un’altra dimensione, vicino alla bandierina. Mi dispiace, ma io sono io e voi no.
 
LACRIME – Non abbiamo ancora scritto Genoa e neppure Roma. E magari è giusto anche questo. Totti vale per tutti nella serata in cui la Curva Sud si pavimenta di rosso e giallo e arancio. Lui lascia la squadra in Champions League, le affida un nome che resterà nella memoria assai più dei fischi a Spalletti e di Spalletti stesso e di Pallotta e di chiunque fosse lì ieri, tranne lui. Quando rientra a leggere la lettera d’addio calpestando il tappeto a forma di maglia, piazzata sul petto del campo, compare lo striscione romanista più romanista di tutti: Oggi piange anche Dino Viola. E sì che Verdone si incupisce in tribuna, sì che Giù la testa di Morricone suona come la colonna sonora di un crepuscolo, sì che Florenzi scoppia a piangere, il Ninja anche, tutta la squadra subito dopo. L‘ultima fascia va a un bambino delle giovanili: è Mattia Almaviva, classe 2006, dei Pulcini, il più giovane capitano del vivaio giallorosso. L’ultimo abbraccio da giocatore alla moglie e ai figli. Non è totalmente dolore e non è totalmente rassegnazione. E’ che siamo alla fine di qualcosa e il sole di domani ci sorprenderà diversi. Ma guarda, Francesco, se ci tocca piangere con te. Eppure è così. Alzeremo ancora gli occhi verso il campo e vedremo il verde dell’erba e il cristallo delle luci riflesse, uomini e palloni. Cercheremo di guardare oltre e laggiù, forse, non vedremo nulla. Facciamo un patto, non venirci mai a chiedere se ci manchi.

M. Evangelisti


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