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Il Tempo

(29/05/2017)

Il tempo si ferma per l’ultima volta

Non sono le parole. A farti capire l’indicibilità del dolore e dello smarrimento e della paura che sta provando Francesco Totti, rendendoti umanamente impossibile non caricartene almeno un po’ sulle spalle, è quello che c’è tra una parola e l’altra. Le pause, le tirate su col naso, i groppi in gola. Quel caracollare in mezzo al campo che fuori sembra la sua solita indolenza quasi strafottente, e invece dentro c’è tutto lo smarrimento di questo mondo. «Io starei qua altri venticinque anni», dice in uno dei rari momenti in cui sembra venire fuori la sua proverbiale levitas cazzara. E dagli spalti sale su un accenno di risata collettiva che vorrebbe essere liberatoria, ma che invece risulta forzata, insincera. Perché alla fine lo sa lui e lo sanno tutti che non sta scherzando manco per niente, e che fosse per lui davvero si firmerebbe all’istante l’auto-rinnovo a scadenza cinque lustri. Mica per giocare – lo sa pure lui che non è più il caso – ma per continuare ad essere l’unica cosa che è sempre stato e l’unica cosa che ha saputo essere: un calciatore. Un calciatore che non calcia, va bene, ma pur sempre un calciatore.

Chissà quand’è stata la prima volta che quel pensiero-occhio, tra un po’ tocca che smetti – gli ha cominciato a bazzicare nella testa. E chissà quanto è stato facile, la prima volta, relegarlo in fondo ai pensieri, in un futuro che sì, arriverà pure, ma hai voglia quando. Ancora mi regge, a cosa fare quando sarà ora ci penso poi. E chissà invece quanto sono stati più difficili i rinvii dal secondo in poi, quando la maledetta vocina si faceva sempre più baldanzosa e strafottente e quando il continuo ricacciarla indietro – un rinnovo alla volta, una partita alla volta, una sostituzione alla volta – diventava sempre più affannoso e carico di ansia. Chissà quante volte avrà provato a prendere il coraggio a quattro mani ed affrontarla finalmente, quella maledizione di vocina, salvo tirarsi indietro un attimo prima perché no, pensare se stesso a fare qualcosa di diverso dal tirare calci al pallone con addosso la maglia della Roma è semplicemente troppo. Lo smarrimento che il corpo e la faccia e le parole di Totti urlano è quello di chi si è reso conto che stavolta di tempo non ce n’è più, e che non esiste stratagemma in grado di comprarti ancora un po’ di respiro. Un po’ come nella favola di Samarcanda: a forza di scappare dalla morte (che qui per fortuna è metaforica, ma non per questo meno tragica) va a finire che te la ritrovi davanti, quasi sorpresa di vedere che alla fine tutta la strada l’hai fatta tu, senza nemmeno che ci fosse bisogno di dirti le indicazioni.
 
E allora diventa quasi una commovente forma di qualcosa che sta a metà tra la coerenza e la cocciutaggine questo suo continuare ad evadere l’evadibile anche nel solenne momento dell’addio. Chi sperava di sentire da Totti una parola definitiva sul suo futuro – smette? Non smette? Va a Miami? A Dubai? – rimane deluso. Oltre al minimo sindacale (e soprattutto non suscettibile ahi lui di ripensamenti) dell’addio alla Roma. Più di quello non dice: qualche frase criptica che gli aruspici di cose giallorosse si affannano a declinare a piacimento e via. Che, dipendesse da lui, resterebbe all’Olimpico fino a mattina lo capisci dalla estenuante lentezza con cui si gusta ogni momento, come se dopo avere dilatato oltre i confini della fisica prima gli anni poi i mesi poi i giorni, ora ci stesse provando coi secondi. Prendi la scena forse la più bella e straziante di un pomeriggio che bellezza e strazio non sa più dove metterli – del pallone in curva: prima, le mani sulla testa e gli occhi gonfi, se li guarda per un tempo che sembra infinito, come se li volesse ringraziare uno per uno; poi prende il pennarellone blu e si mette a scrivere piano piano «mi mancherai», una lettera per volta nemmeno stesse a un concorso di calligrafia; poi se lo accarezza, quel pallone, con la stessa dolcezza e lo stesso amore riservate ai figli un minuto prima; poi se lo palleggia; poi si volta; poi, finalmente di scatto, si gira e bum, palla in curva. C’è solo un momento in cui lo sgomento sembra stemperarsi in qualcosa che assomiglia all’accettazione.

Arriva proprio alla fine della cerimonia, dopo la lettera e i premi e gli abbracci e i cori. Succede quando incede verso il centro di campo, dove ad aspettarlo è comparso un bambino che avrà sì e no dieci anni. Si chiama Mattia Almaviva, è nato nel 2006, gioca nei pulcini della Roma ed è il più giovane capitano del settore under giallorosso. Gli si avvicina, se lo guarda, si leva la fascia e, quasi impacciato per l’emozione, gliela mette al braccio. Poi se lo prende e se lo stringe in un abbraccio che sembra non finire mai. Ecco, è in quel momento ed è davanti agli occhi di quel bambino che- comprensibilmente – sta lì con la faccia di uno che ha appena visto la Santissima Trinità al gran completo che Totti sembra finalmente rilassarsi. Perché si rende conto di avere appena eseguito la più solenne delle investiture: quella ad un bambino che -fortunato tra migliaia di altri come lui – ha appena toccato con mano il sogno di diventare, un giorno, come Totti. E se non ti rimette in pace col mondo questo.

M. Gorra


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