ruolo: Portiere nazionalità: Italiana nato il: 3/5/1958 a: Piacenza altezza: 180 cm peso forma: 75 Kg Due anni a Roma ma una carriera spesa prevalentemente in Lombardia, undici anni fra Brescia ed Inter. La sua esperienza romana da giocatore non è giudicabile, in due anni solo una presenza in campionato. Ma Astutillo Malgioglio, al di là delle sue indiscutibili qualità da calciatore, merita di essere ricordato e considerato per la sua umanità. L'intervista che segue è stata rilasciata nel 2001, sicuramente può chiarire chi è Astutillo Malgioglio.
"Hanno vinto loro. Mi hanno battuto. Da giocatore ho lottato tutti i giorni, per continuare ad aiutare chi, al contrario di noi calciatori, non potrà correre mai. Adesso che sono un ex, non ho più frecce nel mio arco, nÈ forza per combattere. Quello del calcio è un mondo senz'anima. Gira solo intorno a se stesso e ai suoi piccoli drammi della domenica; ogni voce fuori dal coro è un pericolo. E quando smetti, si spengono le luci. Nessuno si ricorda più di te. Avevo 19 anni ed ero titolare del Brescia in serie B quando, grazie ad un amico, visitai per la prima volta un centro per disabili. Mi impressionò la loro emarginazione, l'abbandono, il menefreghismo della gente. Fu un'emozione fortissima, un pugno nello stomaco. I miei genitori si sono sempre impegnati nel sociale, mi avevano già "insegnato" il rispetto e la solidarietà verso gli altri, ma quel giorno tutto mi apparve chiaro. La vita non è solo una palla di cuoio. Mi sono messo a studiare e mi sono specializzato nei problemi motori dei bambini. Poi col primo ingaggio ho aperto una palestra ERA 77 (dalle iniziali del nome di mia figlia Elena nata nel 1977, mia moglie Raffaella e del mio). LÏ offrivamo terapie gratuite ai bambini disabili. Li aiutavamo a camminare, a muoversi da soli.I miliardari del pallone dicono sempre di non avere tempo, di essere stressati. Per anni io ho fatto la spola tra il campo d'allenamento e la palestra a Piacenza: nessuno stress, solo la sensazione di essere un uomo migliore. Con i bambini ottenevo la vittoria più importante, la parata da ricordare.In tutta la carriera non ho mai saltato un allenamento. Ero uno di quelli che si definiscono "professionisti esemplari". Eppure, spesso, non bastava. Il bravo calciatore deve pensare solo ed esclusivamente al calcio. Qualsiasi altro interesse è visto come una pericolosa distrazione, anche quando aiuti dei ragazzi handicappati. Hai sempre gli occhi di tutti puntati addosso: compagni, dirigenti, tifosi. Devi rendere al 110% per non sentire le chiacchiere odiose e disumane degli sciocchi. "Quello pensa agli handicappati invece che a parare"Ho visto Juve-Chievo e la papera di Buffon sul primo gol: può capitare di perdere la palla in un'uscita. Ma fosse capitato a me mi avrebbero massacrato.Nel 1983 sono arrivato alla Roma. Dei due anni in giallorosso conservo ricordi splendidi. Ho avuto ottimi rapporti con tutti. La società mi è sempre venuta incontro: portavo i bambini disabili a Trigoria per la rieducazione, usavo la palestra della squadra dopo l'allenamento.Di Bartolomei, il nostro capitano, aveva una sensibilità particolare. Come me parlava poco, ma aveva un cuore grande. Andavamo spesso negli ospedali a trovare i bambini che erano in terapia intensiva. Dopo due anni in giallorosso passai alla Lazio, in serie B. Fu una stagione tormentata in cui vissi l'episodio più triste della mia carriera. La squadra stentava, la società era assente e disorganizzata, i tifosi non mi lasciavano in pace. Criticavano il mio impegno fuori dal campo, insultavano la mia famiglia. Mi sono sempre chiesto il perchÈ di tanto odio; non ho mai preteso applausi, solo un po' di rispetto. In casa col Vicenza perdemmo 4 a 3 e il pubblico si scatenò. Fischi continui a ogni mio intervento, fino a quando comparve uno striscione in curva: "Tornatene dai tuoi mostri". Alla fine della partita mi sfilai la maglia, la calpestai, ci sputai sopra e la tirai ai tifosi. Sono un uomo anch'io. La società chiese la mia radiazione. Dello striscione invece non parlò nessuno. Quello che mi ferÏ di più, non furono le cattiverie nei miei confronti ma la totale mancanza di rispetto, di solidarietà, di pietà per quei bambini sfortunati che non c'entravano niente. "Mostri", cosÏ li hanno chiamati. Il giorno dopo a Piacenza ho visto i genitori di quei bambini, che mi guardavano negli occhi. Non sapevo cosa dire. Mi sono vergognato per quei tifosi. Molti di quei bambini oggi non ci sono più." Aveva deciso di smettere quando arrivò la telefonata di Trapattoni: "Non è giusto che uno come te lasci il calcio" mi disse. Firmai in bianco e restai all'Inter cinque anni, vincendo l'ultimo scudetto nerazzurro. Con gli ingaggi rinnovai la palestra con attrezzature all'avanguardia.Venivano da tutta Italia per fare rieducazione nel mio centro". Il destino volle che molti anni dopo, il 4 marzo del 1990 giorno di Lazio-Inter, Zenga, il titolare, fosse squalificato: "Giocavamo al Flaminio, perchÈ l'Olimpico era in ristrutturazione in vista dei Mondiali. Trapattoni non ebbe alcun dubbio: vai in campo - mi disse - non sentire i fischi che arriveranno, dimostra che uomo e che portiere sei. Il clima era teso, il presidente Pellegrini mi chiese di portare dei fiori alla curva laziale per non far scatenare i tifosi, c'era il rischio di incidenti. Io gli risposi che non sarebbe servito a niente, ma a malincuore portai quei fiori. La partita iniziò con 15 minuti di ritardo per lancio di oggetti contro la mia porta. Mi dissero di tutto. Perdemmo 2 a 1 ma fui il migliore in campo. Fummo bloccati negli spogliatoi per parecchio tempo. I tifosi volevano assalirmi. Sono tornato a Roma a fine carriera. Una volta per parlare ad un convegno sui problemi dei disabili, all'uscita, per strada mi hanno riconosciuto e insultato. La salute e la mancanza di fondi mi hanno costretto a chiudere la palestra. Io ho di che vivere, non chiedo niente a nessuno. Ma la struttura costa molto e non me la sento di far pagare i pazienti. Ora faccio quel che posso seguendo i casi più gravi a domicilio. Ho ancora tanti macchinari, alcuni fatti fare su misura. Non so a chi darli, un centro come ERA 77 rappresentava un unicum in Italia. E' un peccato sia finita cosÏ. Finchè fai parte di quel mondo, riesci ancora a coinvolgere qualcuno, ad attirare l'interesse. Una volta finito di giocare però nessuno si ricorda più di te. Non mi è mai piaciuto bussare alla porta della gente, ho cercato di sensibilizzare tante persone. Ma ognuno deve fare ciò che si sente.Klinsmann mi è sempre stato vicino. Ha seguito la mia attività per anni, aiutandomi molto. Mi sarebbe piaciuto lavorare con le giovanili. Ma uno come me è "pericoloso": mi batterei contro la tratta dei baby calciatori che arrivano dall'estero, bambini che vengono strappati dal loro ambiente. Dove finiscono tutti quelli che non sfondano nel calcio? Se potessi, ad un ragazzo cercherei di far capire l'importanza dello studio, del rispetto verso gli altri, e gli direi che il gol più bello è aiutare chi ha bisogno. Perchè il calcio è un gioco, ma la vita è un'altra cosa. Mi ha chiamato un'organizzazione cattolica, i frati trappisti di Lodi, per la creazione di un centro per bambini abbandonati. Voglio aiutarli, le mie macchine potrebbero ricominciare a lavorare. Un'amichevole a Natale, un sorriso alle telecamere, una frase di circostanza e tutti a casa. Quanti dedicano davvero qualche ora a chi soffre? So di Tommasi e pochi altri. Mosche bianche in un mondo di ricchi, fortunati eÖciechi. Immagino le loro difficoltà. E quando finiranno di giocare, saranno dimenticati. Perchè il calcio non ti perdona niente, neanche la solidarietà".
Questo è un uomo. |