In cinquant'anni di vita ha mescolato più volte calcio e finanza e da un mese Claudio Fenucci e tornato a mixare i suoi interessi con l'obiettivo di dimostrare che con il calcio si può fare business. Quasi una chimera in un settore dove i soldi, da decenni, li fanno solo i calciatori e i loro manager. Fenucci, nuovo amministratore delegato della Roma, è convinto invece che anche gli stakeholders possano godere i vantaggi dello sport più bello del mondo e in questa conversazione con MF-Milano Finanza spiega perché. «Siamo nel mezzo di una rivoluzione come quella del fair play finanziario. Anche se...».
E qui Fenucci storce un po' la bocca. «Per come è stato configurato il meccanismo, il fair play cristallizza i rapporti di forza oggi esistenti all'interno delle competizioni europee, ma anche dentro gli stessi singoli campionati nazionali. Se l'unica variazione rispetto al valore della società è data dal risultato finale di bilancio e l'unico investimento al di fuori dei parametri fissati resta quello sulle infrastrutture, alla fine vai a ingessare la gestione caratteristica dell'impresa. Lo sviluppo, in un club, te lo danno sì gli investimenti nelle strutture ma anche quelli sportivi, che ti fanno aumentare i ricavi, permettendoti maggiori investimenti e quindi ulteriori ricavi. È un volano virtuoso che aumenta la competitività».
Nessuna nostalgia degli ingaggi folli. «La Uefa e le Leghe fanno bene a vigilare sulla solvibilità e a chiedere competizioni fair in cui chi opera abbia le risorse necessarie per farlo, ma era possibile raggiungere lo stesso obiettivo con altre regole. Per esempio si poteva, come nella nostra serie B, imporre il rilascio di garanzie per il differenziale tra gli stipendi dei tesserati e il valore di equilibrio, pari al 60% del fatturato».
Ma c'è un discorso più generale che preme a Fenucci. «Dopo la legge Veltroni c'è stata un'ondata liberista nella politica della Lega e della Federazione, che ha portato a non preoccuparsi dei rischi delle associate. Prendo il caso delle retrocessioni; oggi, data la differente struttura di costi e ricavi tra A e B, se una società retrocede è seriamente a rischio la continuità aziendale, vista l'enorme discontinuità di fatturato. Se invece si limitasse il numero delle retrocessioni e si aumentassero le risorse per le società retrocesse, spalmandole su più esercizi (due o tre), si creerebbe un ammortizzatore. Certo, al tempo stesso si dovrebbe fissare parametri chiari, tra costi e fatturato, anche per chi viene promosso alla serie superiore. Insomma, nessuna scommessa azzardata, ma un po' di programmazione».
Centrale, comunque, è la questione degli stadi e, come esempio, Fenucci porta il caso di Novara-Roma, partita recente giocata sotto un diluvio biblico, che non ha intaccato però il nuovo campo artificiale. «Proprio quella partita è la dimostrazione dei guai del calcio italiano. Perfetta per la tv, chi stava a casa ha visto un incontro di livello, non un match di catch nel fango. Chi stava allo stadio, invece, ha rischiato la polmonite. Ecco, non ci può essere un impianto di serie A che non abbia alcuna copertura».
Non solo. «La tv ha cambiato il concetto di fruizione dell'evento sportivo e anche allo stadio devi dare almeno le stesse cose che chiunque può avere con 19 euro al mese sulla poltrona di casa, ossia gli highlight, le interviste, l'arrivo del pullman della squadra, le immagini dello spogliatoio. Quindi grandi schermi ad alta definizione, ma anche ambienti confortevoli, ristoranti, spazi per i bambini».
Ma lo stadio deve diventare un po' la casa del tifoso. «In Italia c'è una forte identificazione tra tifoseria e squadra, ma non tra tifosi e società. Il progetto Roma, in fondo, è anche questo. Non c'è un mecenate, un padrone che compra i giocatori e offre lo spettacolo, ma una società che, operando come entertainment company, punta a sviluppare la massima utilità per tutti gli stakeholder; ossia i tifosi, che sono interessati alla parte sportiva, ma anche il territorio, che può godere delle infrastrutture che si sviluppano intorno allo stadio, tipo alberghi, centri commerciali, nuovi appartamenti. Dopodiché certamente si devono fare gli interessi anche degli azionisti, che devono vedere remunerati i propri investimenti».
C'è poi il tasto dolente dei costi. «Gli azionisti della Roma hanno già previsto due aumenti di capitale per finanziare lo sviluppo del progetto, ma è certo che nei prossimi due o tre anni, oltre ai ricavi che possono venire da competizioni internazionali e dal progressivo sviluppo internazionale del brand, dovremo trovare risorse riducendo il monte-ingaggi, sfoltendo una rosa di 29 giocatori e valorizzando al massimo il vivaio».
Inutile osservare che alla Roma basterebbe vendere De Rossi. «No, qualche cessione è possibile, ma non De Rossi, che fa parte del progetto. Noi lo vogliamo tenere e credo rimarrà. No, io credo che sia importante il progetto del vivaio, non solo perché il nostro è il migliore, ma perché serve un nuovo modello, molto più sostenibile. Rose di 14, 15 giocatori e poi un numero adeguato di giovani pronti a entrare in prima squadra. Però per questo progetto non basta ricorrere alla primavera, ci vuole una seconda squadra che giochi nella Lega Pro. E tutti i club di primo livello dovrebbero essere interessati a un'idea del genere, che riduce i costi e valorizza le risorse. Oggi quando hai un diciannovenne brillante lo mandi in prestito. Lo stacchi dall'ambiente del club, affidi ad altri la sua formazione ed è raro che alla fine ritorni stabilmente nel club. Invece tra squadra A e B l'osmosi è continua. Basta vedere quanti ragazzi della «cantera» sono finiti nella rosa del Barcellona. Un club vincente si costruisce anche così».
Milano Finanza - A. Satta